guaraldi editore

Laboratory for a new book economy

Cronache dal Far Web, e-books e distribuzione. Ai bibliotecari io chiedo…

Con una nota introduttiva di Giuseppe Vitiello

Le biblioteche italiane all’epoca di Google.

La profezia è un genere letterario sospetto, perché facile e immediato è il suo consumo e troppo dilatata nel tempo l’opportunità di provare la sua falsificabilità. Se è però Mario Guaraldi a profetizzare, le cose si fanno serie. Non solo perché si sta parlando di uno degli editori simbolo della contestazione studentesca, che in appena otto anni, dal 1971 al 1979, riuscì a rivitalizzare il paesaggio culturale italiano pubblicando autori come Umberto Eco, Pierre Bourdieu o Marie Bonaparte. Ma anche perché, da almeno un ventennio, Guaraldi mantiene, in tutta autonomia e senza nessuna sovvenzione di carattere locale o nazionale, un laboratorio di comunicazione editoriale in cui sono state sperimentate la maggior parte delle innovazioni settoriali avvicendatesi nell’era post-gutenberghiana: dal print-on demand all’e-book, dai learning objects all’accesso aperto, dai titoli “risuscitati” (della Guaraldi storica) ai titoli salvati (dal macero).
C’è un filo rosso che lega l’esperienza del Guaraldi editore al Guaraldi sperimentatore e questo filo è la costante interrogazione sulla sorte dei contenuti di qualità, dopo che essi sono passati al setaccio impietoso della strozzatura distributiva. L’editore riminese è forse uno dei maggiori esperti in una disciplina invero speciale: le barriere nella distribuzione libraria, che ha studiato e subito fin da quando, nel lontano 1974, convocò a Rimini un’assise dell’editoria democratica per individuare assi distributivi alternativi a quelli controllati dai grandi gruppi. La sua preoccupazione si rinnova oggi davanti al presentimento di ciò che può accadere sulla rete; ci avverte Guaraldi, infatti, che anche qui, come sui banchi della libreria e dei supermercati, la selezione sarà opera dei ragionieri del marketing di consumo e dei mercanti degli sconti concordati tra i gruppi della grande editoria (i colossi, che detengono e mantengono decine e decine di marchi editoriali) e la grande distribuzione. Se in libreria la contabilità del marketing e dello sconto si misura in tanti metri lineari di scaffali “comprati” dagli editori, sulla rete invece essa si presenta nei “bitodotti” ad alta banda proprietari, e questo in barba alla bella retorica della filiera editoriale dove ognuno dei suoi anelli, dall’autore e il traduttore al libraio e il bibliotecario, gioca un ruolo culturale.
Nello scritto che segue Guaraldi disegna a briglia sciolta le battaglie sul contenuto che si svolgeranno in Italia nel futuro prossimo e passa ai raggi X gli attori emergenti, esaminandoli da ogni lato, compreso quello su cui mai batterà il sole della qualità.
Che cosa chiede allora alle biblioteche questo appassionato navigatore, traghettatore di contenuti da ormai mezzo secolo? Né più né meno che esse si trasformino in canale di approvvigionamento di contenuti sul territorio, come alternativa ai “bitodotti” cui sempre più assomiglieranno le librerie virtuali e i fornitori di libri elettronici del futuro. Il controllo sull’accesso alle risorse è da sempre fattore strategico di dominio del mercato e ne influenza la fisionomia produttiva. Il monopolio, o l’oligopolio, nella distribuzione dei contenuti porta a vistose anomalie e Guaraldi ce ne mostra le prime avvisaglie.
Ad esempio, chi ha mai detto che la rete è il luogo dove, abbattuti i costi di stampa e d’intermediazione, i prezzi sono schiacciati fino all’inverosimile? Esempi alla mano, Guaraldi dimostra che in Italia non solo essi rimangono uguali, ma che i margini per gli intermediari più culturali sono inversamente proporzionali a quelli dei produttori-aggregatori. In altri termini, disintermediazione e digitalizzazione portano a egemonia e controllo dei flussi di mercato – e già sono chiari i pericoli di abuso di posizione dominante.
Il copione è noto alle biblioteche, che nel corso dell’ultimo ventennio hanno svolto il ruolo di cavia sacrificale nel laboratorio dell’innovazione editoriale. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, infatti, il progetto Tulip vide le biblioteche olandesi collaborare con Elsevier. Anche se il modello decentrato di Tulip non fu mai applicato a regime, il grande gruppo editoriale lo utilizzò per ricavarne esperienza tecnica e disegnare i propri modelli di business, in seguito realizzati nel portale proprietario di aggregazione. La storia si ripete con Google, dove gli accordi con le biblioteche servono al colosso di Mountain View per sperimentare la costruzione e la tenuta dell’infrastruttura di base, su cui fondare modelli diversificati di distribuzione dei contenuti, alcuni dei quali a pagamento, non più fondati sull’accesso universale.
Che cosa chiede allora l’editore riminese alle biblioteche? Di non farsi terra di colonia di armate editoriali aggregatrici, spesso straniere, né di erigere deboli steccati che crolleranno davanti all’implacabile logica dei big deals imposti e poco negoziabili. Egli chiede che le biblioteche diventino come Google, che le ha prese inizialmente a modello, e più di Google, identificando fin da ora la nicchia in cui diffondere contenuti di qualità e aprendo canali alternativi e solidali con gli editori, almeno con quei protagonisti (una specie, ahimè sempre più da proteggere) ostinatamente ancorati all’idea che scegliere gli autori sia una loro prerogativa, che non rinunciano alla selezione rigorosa dei contenuti, che non si adeguano supinamente alle logiche e ai formati proposti dal mercato e che ancora considerano loro primo dovere mantenere una redazione.
Fin qui, il programma è ricco, anche se solo sulla carta. Il problema è: come realizzarlo? Esistono tali canali alternativi in Italia, o nel nostro paese ci si limita a studiare pedissequamente le raccomandazioni maturate nei progetti di punta delle istituzioni Ivy League e della New York Public Library? Forse le soluzioni pratiche vanno ricercate nelle stanzucce dei bottoni dei bistrattati centri di ricerca e delle botteghe editoriali, perché questi sono oggi, nonostante tutto, i centri di comunicazione della conoscenza più avanzati di cui dispone il nostro paese.
La realtà italiana è particolare e per certi versi anomala. Non solo le biblioteche e la ricerca sono sottofinanziate e sottodimensionate rispetto alle esigenze ma – risultato bizzarro di tale anomalia - le istituzioni universitarie riescono ad emettere fuochi amici di provvedimenti con cui uccidere sul nascere i germogli di modelli editoriali alternativi. Si prenda l’open access, ad esempio. L’Italia è, a mia conoscenza, il solo paese dove il movimento dell’accesso aperto si è trovato a fronteggiare politiche editoriali universitarie aventi come obiettivo addirittura la razionalizzazione della spesa interna. Si è giunti insomma al paradosso che si fanno pagare i contenuti elettronici, invece di offrirli, come avviene nel resto del mondo, in accesso aperto e gratuito.
Come superare l’anomalia? Come costruire questa infrastruttura nazionale essenziale, su cui far viaggiare i contenuti di qualità, sia in accesso libero, sia a pagamento? La risposta è da ricercare nell’esistente e l’esistente ci propone una struttura di eccezionale valore, anche se frutto del tempo libero e dell’entusiasmo di pochi, impegnatissimi, preziosi individui: il portale PLEIADI, oggi articolato unicamente sull’(auto)archiviazione di tesi di dottorato, ma dalle potenzialità distributive enormi.
Su PLEIADI dovrebbe davvero snodarsi una riflessione più complessa, che sfoci nell’elaborazione di un modello di business sostenibile sul lungo termine, magari allargato alla collaborazione con il privato. Si tratta di capire se tale portale debba rinchiudersi nel ghetto dell’autoarchiviazione e non invece nutrire ambizioni più importanti, orientandosi verso la strada dei filoni tematici e dando vita a una nicchia di contenuti tutta italiana capace di competere, per il rigore dei suoi criteri di selezione e per l’apporto collettivo spontaneo, con Google, Amazon e gli altri attori egemoni nella distribuzione dei contenuti.
Prima o poi occorrerà pur approfondire la discussione sul ruolo autonomo delle biblioteche italiane nella trasmissione dei contenuti elettronici. L’agenda italiana del libro elettronico, sia esso e-book o digitalizzazione delle collezioni, non può vederle infatti unicamente come consumatrici, come filoni auriferi sfruttabili e sfruttati da terzi, o come spettatrici passive di decisioni maturate nei consigli d’amministrazione delle librerie elettroniche e dei motori di ricerca. La discussione va cominciata ed è bene che a dare il la sia un “vecchio” editore, ma giovanissimo di idee, come è Mario Guaraldi. 

Mario Guaraldi
Ai bibliotecari io chiedo…
Cronache dal Far Web, e-books e distribuzione (1)

1. Il libro: una questione di contenuti o di forma?

Per il mondo dell’editoria, la rivoluzione digitale inizia quando si capisce che un libro è il suo contenuto, non la sua forma.
Per molti colleghi questa rivoluzione non è mai avvenuta, o per meglio dire non è ancora avvenuta. Gli amanuensi, i calligrafi e i miniatori hanno continuato a fare egregiamente il loro mestiere ancora per oltre mezzo secolo dopo Gutenberg. Il Duca di Urbino si vantava di non avere un solo libro a stampa nella sua biblioteca, ma non poté fare a meno di utilizzare, per le sedute esterne del suo splendido Palazzo, le immagini delle macchine belliche disegnate da Matteo de’ Pasti per l’incunabolo dell’opera di Roberto Valturio stampato a Verona nel 1472: più semplici che non le fantasiose versioni miniate nei 22 codici realizzati dallo scriptorium riminese del grande umanista.
Una mia laureanda ha fatto una tesi sull’evidenza, emersa a lezione, che ogni “salto tecnologico” comporta in prima istanza un calo della qualità estetica del manufatto. Ancora oggi appare difficile dire che una buona stampa offset possa essere migliore della foto originale. Troppi “passaggi” rendono arduo il compito. Ma, paradossalmente, l’estetica, nell’era della sua riproducibilità tecnologica, doveva attendere l’avvento del digitale per potere accettare la sfida: oggi una stampante Indigo può calibrare l’immagine da stampare direttamente e al vivo nel confronto con l’originale; e la zoomabilità dell’immagine digitale fino a molte centinaia di volte consente “letture” dell’originale impensabili per l’autore stesso.
Queste “visioni”, queste zoomate della fantasia, sono tipiche dei “profeti”. Essi vedono oltre l’attualità tecnologica del momento. Il profeta è l’ecografista del futuro. Egli vive ai margini del mercato, lo conosce ma non lo ama. Non lavora per le Asl. E’ una sentinella. Preferisce le alture da cui scrutare l’orizzonte. Sentinella, dimmi, che turno è della notte dell’editoria? Dal ramo del fico quando intenerisce e mette le gemme sa che l’estate digitale è vicina.
C’è una specie di legge che regola le evoluzioni, una specie di maturità dei tempi. La rivoluzione è solo il piccolo momento di rottura conclusivo di una lunga gestazione della novità. Come la rottura delle acque nel travaglio del parto. Ma non è quello il clou dell’evento. Deve prima apparire il volto del neonato perché l’avventura abbia inizio davvero, prima che si possa parlare di una nuova vita che si sviluppa e avanza sull’inesorabile decadenza di chi l’ha generata.
L’e-book – il libro digitale ha bisogno di un nome straniero per autodefinirsi - è il neonato di cui stiamo parlando; ha ancora gli occhi chiusi ma un prepotente bisogno di nutrirsi. I fratelli cartacei più grandi cercano subito di soffocarlo, come Freud insegna, ma il fantasma fratricida si stempererà presto in una specie di presa di controllo contrabbandato da istinto di protezione.
I vari e-Reader, i Kindle, gli i-Rex, i Sony, i Samsung sono i primi giocattoli che genitori apprensivi gli rovesciano addosso per stimolarne lo sviluppo. I genitori abitano in Internet, la città planetaria, e si chiamano Google e Amazon: bibliotecario lui, libraia lei. Quei giocattoli sono gli apripista di una mutazione genetica da cui si aspettano molto e su cui investono molto. Nonno Microsoft e nonna Murdoch stanno a guardare irritati questi figli voraci che vogliono spartirsi l’eredità. Ma i capostipiti sono ancora capaci di generare, forse, qualche figlio della vecchiaia che faccia Bing. E sicuramente non si faranno spogliare senza qualche scapaccione legale. Né i nonni, né i genitori sembrano consci del fatto che il nipotino e-book è geneticamente modificato e nessuno sa esattamente a cosa sia destinato.
Presto sarà guerra totale. Arriveranno le truppe d’invasione. Armagheddon sta armando i propri bit, sta cercando di controllare le vie del web, cerca di imporre dazi sulle autostrade di Internet, inventa virus, ripropone antiche gabelle, alza barriere. La posta in gioco è il Diritto d’autore, il nemico da battere: la gratuità. Il copyright è un’invenzione giuridica recente, la gratuità un’antica pretesa della Natura. Una domanda inespressa corre muta nel web: la cultura è una merce, un servizio o un bene comune, come l’aria o l’acqua?
Anche l’acqua, lo sappiamo, può diventare un business e in un mondo carente d’ossigeno non mi stupirei se apparissero presto anche i contatori d’aria, delle bombole a pagamento.
Oggettivamente il problema esiste: come guadagnare commerciando l’immateriale? Come remunerare la creatività? Non si tratta di salvaguardare una normativa, ma di inventare un diverso modo di far fruttare la gratuità della rete; far pagare un servizio multiforme che muta pelle a seconda dei devices cui è destinato.
Per il momento, l’e-book non è ancora precettato, per ora lo tengono sotto tiro con la stupidità del new-age, con la voracità dei DRM. Il giovane e-book guarda con trepidazione al mondo della Scuola e alla galassia dei sistemi bibliotecari: ma i suoi potenziali alleati lo ricambiano ancora con sospetto. Lo temono. Temono la carica dirompente di un nuovo modo di concepire la didattica, di un modo virale di diffondere la cultura. Non aveva evidentemente fatto troppo male la prima bordata delle truppe d’assalto contro le Biblioteche, pretendendo da queste il pagamento di diritti sul prestito bibliotecario. Solo un’avvisaglia: attente a non tradire la carta! Non stupisce che ora Murdoch chieda i diritti a Google per indicizzare i contenuti delle sue news.
Ancora una volta prevarrà la notte della ragione, come nella piovosa San Francisco di Blade Runner? “Ho visto cose che voi umani…”. Sarà una colomba che si libra nella pioggia, il finale, o una pagina di Moby Dick sfogliata sul Kindle, con l’immagine del capitano Achab trascinato sul fondo?
Si, la guerra scoppierà. Chi vincerà, non è chiaro: per ora, sembrano avere la meglio le truppe corazzate dotate di hardware proprietari potenti.
Sembra davvero di essere tornati alla fine del ‘400, quando gli eserciti indossavano ancora le armature, ma imbracciavano assieme alle balestre i primi archibugi. Il bravo Roberto Valturio(2) aveva inventariato le invenzioni belliche che, grazie alla polvere nera dei cinesi, avrebbero rivoluzionato il modo di fare la guerra: le bombe a mano, i cannoni, le mitragliatrici…
Ma che strano. Contemporaneamente, contestualmente, Gutenberg inventava i caratteri mobili e le nuove tecniche di stampa: un’arma infinitamente più potente per vincere le guerre!
Tomasi di Lampedusa ha avuto ragione una volta di più: occorreva che tutto cambiasse perché tutto restasse immutato, anche per la rivoluzione digitale. Si tratta di una domanda o di un’affermazione?
Diciamo così: fino a ieri il mercato ha sbeffeggiato i profeti di sventura che annunciavano la fine della morte del libro cartaceo, o per meglio dire l’avvento ineluttabile del libro digitale (andate a rileggervi gli articoli di Geminello Alvi su Repubblica, l’apologia del paradisiaco giardino delle librerie, il buon odore della carta stampata) da un lato; considerate dall’altro la creazione del latifondo distributivo delle librerie soviet-style di Romano Montroni, che ha iniziato con Feltrinelli e proseguito con le Coop. Ieri? Le mie prime profezie risalgono ormai al secolo scorso (anni ’90), ma il fuoco di sbarramento della filiera editoriale italiana contro il rischio dell’e-book dura letteralmente fino a pochi mesi fa.

2. Kindle e i suoi emuli

Poi scoppia Kindle. E di colpo, dico proprio di colpo, dalla sera alla mattina, la spoletta Kindle sembra far partire la “vocazione digitale” dell’editoria italiana. Il Mulino annuncia in contropiede l’apertura del suo catalogo ai ricercatori, titolo splendido: Darwinbooks, l’evoluzione del libro. Peccato che sia solo una furbesca trovata di marketing editoriale per vendere contenuti universitari a pagamento.(3) Ben venga, comunque, rispetto a Bruno Editore (pardon www.autostima.net!), che annuncia di aver venduto il suo milionesimo e-book “per la formazione” dalla sua piattaforma: si tratta di un testo fondamentale, SessualMente. Vivere Pienamente la tua vita sessuale e il rapporto con il sesso, solo 29 € più Iva al 20%. Gli altri titoli “per la formazione” si chiamano Piacersi per piacere, Da timido a vincente, Fare soldi online in 7 giorni, a firma dello stesso editore che così guadagna anche come autore!, tutti rigorosamente a soli 29 euro più iva. Ma se volete cose più importanti, eccovi serviti: Investire in aste immobiliari. Tecniche e strategie pratiche per guadagnare in immobili con le aste vi costerà 47 € più iva, cosa volete che siano a fronte dei futuri guadagni! Giuro che do’ io 50 € all’acquirente di questo e-book se mi spiega cosa lo ha spinto a fare questo straordinario investimento Mobiliare (con la M rigorosamente maiuscola).
Morale: se avevate fatto il tifo per il digitale come potente zippatore di costi a beneficio del fruitore finale, avete dimostrato tutta la vostra ingenuità!
Sciocchi! “Abbiamo azzerato i costi della carta della stampa della legatura: restano solo i costi propri dello specifico editoriale!”: era forse questa la vostra omelia? Ciechi! Finalmente lo specifico editoriale riacquista il “valore” che meritava e che finalmente incasserà! Peccato che Vanna Marchi si sia trovata ad operare un pelino troppo in anticipo, avrebbe fatto una fine diversa…Dimenticavo: il collega Bruno è stato il primo editore italiano a caricare e distribuire i suoi e-Books su Kindle.
Non ha invece evidentemente capito la regola di cui sopra, l’amico Tombolini, che consente di mettere nel suo carrello della spesa un potpourri di e-books “a gratis”, da Mompracem all’Orlando furioso, e solo una mezza dozzina a pagamento: non chiedete a me la sua logica editoriale!
Dopo (e onestamente anche prima di) Kindle, la cagnizza dei concorrenti 2: il Nook di Barnes & Noble, il BeBook di Samsung, i vari Sony, gli i-Rex, i Cybook di Booken, e ancora: pocket Book, Foxit e-Slik, i Story Ereader, Flatreader e chi più ne ha più ne metta, come fa, oltre la benemerita Book Farm di Tombolini, anche la Libreria Ledi di Via Alamanni a Milano.(4) 
“L’offerta di contenuti è scarsa”, strillano tutti: ma nel nostro piccolo noi della Guaraldi abbiamo reso disponibili ben 800 e-book! e ci sono almeno altri 200 cataloghi che offrono e-books in uno qualsiasi dei 28 formati supportati dalle varie macchinette, oltre quelli “proprietari” (come il Kindle).
Già, i formati!
Txt, PDF, RTF, e-Pub, Lit, PPT, DOC, WOLF, CHM, FB2, PRC/MOBI, HTML, DJVU, MP3, TIFF, JPG, BMP, PNG, RAR, ZIP, BBeB,, Plucker, zTxt, TCR, OEB, un’orgia di sigle e di aspettative. La battaglia fra PAL e SECAM alla preistoria della TV fu roba da ridere in confronto… Perché questa proliferazione di formati proprietari legati alla “macchinetta”?
Tutto nasce, credo, dall’equivoco Kindle: un semplice terminale virtuale del negozio Amazon fra le mani del cliente finale. Una strada obbligata per Amazon, che aveva dapprima sondato la strada del “print on demand planetario” (vedi l’acquisizione di Book Surge) prima di scoprire, come Colombo, che l’uovo bastava spiaccicarlo su un tablet, di fronte al suo cliente. E in tempo reale. Ma Kindle, ripeto, è un caso a sé, come il “Nook” di Barnes & Noble, omologo di terminale di libreria. Io vorrei stare su Kindle o su Nook, esattamente come una volta volevo stare sui banconi della Feltrinelli o della Riozzoli a Milano…! Per Amazon, Kindle è nient’altro che l’equivalente della tessera di fedeltà Feltrinelli: presto lo regaleranno, con vendita del solo credito incorporato per l’acquisto libri: e chi si ne frega dello standard? E poi, non è affatto vero che è “chiuso”: un formato Kindle lo leggi su PC, su Apple, su i-Phone e su i-Pad…!
Per tutti gli altri e-Reader, invece, la partita è radicalmente diversa. Sono devices, analoghi ai mille modelli di archivi digitali di files MP3 che spianarono il cammino ad i-Tunes. Per questi, e solo per questi, lo standard – come già l’MP3 per i dischi, per i libri si chiama e-Pub - sarà determinante.. Chi è mai andato a fare acquisti da Feltrinelli con la tessera delle Dehoniane?
Dove stava, e dove sta, allora l’errore? Semplice, nel non avere capito che ancora una volta il problema è “distributivo”, prima che produttivo! L’errore sta nell’avere pensato che avrebbe vinto il libro (digitale), non la Libreria (digitale); il contenuto, il digital book content, invece del suo contenitore (carta prima e macchinetta per leggere oggi); l’editore invece del distributore... Content is king!
Ma sarà poi vero? Senza Avatar, le multisale vivrebbero bene lo stesso con mille Muccino? Senza Thomas Mann, le librerie vivrebbero bene lo stesso con mille Bruno Vespa?
Come in un thriller mozzafiato, la recentissima presentazione dell’i-Pad di Steve Jobs ribalta ancora una volta le carte in tavola e rilancia l’i-Phone in versione e-book multifunzione, ma non multitasking: la sirena i-Pad, una meraviglia, gadgettisticamente parlando, l’ibrido per eccellenza. Costa poco, fa tutto, scarica qualsiasi cosa, televisione inclusa, da uno store che se fosse Google, ci sarebbe da svenire per sindrome di Stendhal, ma…
Ed è qui che rispunta il nodo della distribuzione.

3. Riepilogo per ripartire

Tentiamo di riepilogare:

  • abbiamo dei “contenuti culturali” in cerca di canali di vendita (proviamo a chiamarli semplicemente “Libri”?);
  •  abbiamo delle “librerie planetarie” (Amazon, Barnes & Noble) con vetrine tentacolari e remote in forma di macchinette che chiamiamo e-Reader, le quali reclamizzano il fatto di essere fatti di carta, sia pure elettronica; insomma, non screen retroilluminati;
  • abbiamo dei “formati” con cui proporre i nostri contenuti (il caro vecchio PDF! il moderno XML? il modernissimo e-Pub? O i vari formati proprietari dei vari Librai Planetari (come TOPAZ, un nome, un programma!) e perché no, dei potenziali editori che volessero scendere nell’agone, come fece Mondadori-Microsoft con il Lit;
  • abbiamo delle Biblioteche Planetarie, come il pur ambiguo ma geniale Google Books, che consente di “cercare il libro e dentro il libro” fra i fuori diritto, i libri orfani e gli editori consenzienti (come me);
  • abbiamo persino delle nuovissime piattaforme di prestito bibliotecario “vero”, che offrono contenuti digitali interi e fruibili, come MediaLibrary online;(5)
  • e finalmente abbiamo persino dei nuovi distributori di contenuti digitali, che si presentano come tali: “di-stri-bu-to-ri”, grazie alle piattaforme corazzate su cui qualcuno ha investito milioni di dollari,(6) che si propongono come nuovi “cambiavalute” planetari: vendono contenuti in qualsiasi formato destinatario: “Tu pensa al contenuto, che al formato di destinazione ci pensiamo noi”: questo lo slogan inespresso di questa come di tutte le future piattaforme distributive.

Piccolo dettaglio: Zinio chiede il 50% del prezzo digitale di vendita che fissa l’editore, a differenza di quanto inizialmente ipotizzato da Amazon per i contenuti digitali offerti attraverso Kindle, al prezzo unitario di 9,90 dollari. Perché abbassare i prezzi, cari colleghi? Anzi, è questo il momento di alzarli per salvaguardare il nostro “netto”. A la guerre comme à la guerre, che abbia ragione Bruno?
Dopo la circumnavigazione della luna, siamo tornati alle “vecchie” Messaggerie, alla via dell’oro della distribuzione, al segmento della filiera che i libri si occupa di spostarli, piuttosto che di crearli...
, la guerra è già scoppiata, il profeta avrà nuove visioni, le truppe si sposteranno per altre invasioni. L’e-book diventerà grande. Quale sarà il suo volto ancora non sappiamo. Ma sappiamo per certo che tutti lo capiranno, non escluderà nessuno, parlerà mille lingue e anche i ciechi lo vedranno…
E la Biblioteca? Su quale fronte combatte la Biblioteca? Personalmente ho un sogno: che sia proprio la biblioteca la nuova frontiera del libro in formato digitale. Il costo del prestito coinciderà col costo di vendita del file digitale, come per la musica: 50 centesimi a pezzo, centinaia di migliaia di copie distribuite in 100 lingue diverse…

4. Ai bibliotecari io chiedo…

Sebbene sia il mondo editoriale sia quello bibliotecario si nutrano di contenuti culturali, essi paiono reciprocamente estranei e addirittura ostili. Tuttavia, è solo apparentemente strano che siano fra loro così drasticamente alieni. Una ragione evidentemente c’è ed è ovvio svelarla: l’editoria è il mondo dove contenuto vuol dire vendita e proprietà, mentre la biblioteca è il mondo dove contenuto vuol dire gratuità e servizio. L’editore vende per proprio profitto, il bibliotecario compra per il profitto altrui.
L’incompatibilità è ovvia, ma è aggravata dal fatto che per qualche misteriosa ragione non giuridicamente sorretta, il mondo bibliotecario ha preferito da sempre non approvvigionarsi direttamente alla fonte dei contenuti di cui si nutre, magari trattando maxi sconti presso i distributori, ma ha privilegiato il rapporto con qualche libraio di fiducia o con reti commerciali dedicate alla propria mission, capaci di fornirgli, con i libri, anche servizi oggettivamente preziosi (ma perché non chiederli al “fornitore-editore”?). Torneremo più avanti su questo tema.(7)
Se dunque i due mondi si guardano in cagnesco, resta ora da domandarsi se la reciproca ostilità sia “ragionevole”.

a) Riflettere sull’illogicità del sistema distributivo “tradizionale”

Il mio lavoro consiste nel “concepire” un libro: sembra una banalità ma non lo è. Un libro va sempre concepito, anche quando è adottato, o quando è il frutto indesiderato di un rapporto occasionale con un autore pronto a tutto pur di essere pubblicato. La maggior parte dei libri destinati al mercato consumer sono frutti di sveltine senza importanza, nascono senza amore, sono rapporti mercenari, si fanno per denaro. Ma qualche volta un libro è davvero pensato, cercato, voluto, desiderato, risponde a un’esigenza reale: ecco un libro vero, quello che, in teoria, dovrebbe interessare il Sistema bibliotecario, perché certamente non avrà grande esito in libreria o al supermercato (con le dovute eccezioni).
Tutti, libri veri e trovatelli, bastardi e libri handicappati, libri di calciatori e di presentatori, manuali new-age, saggi e romanzi, tutti vengono sbattuti sul mercato per vivere la loro chance di tre settimane. Questo è, infatti, il lasso di vita di un libro cartaceo tradizionale! Al lancio dalla rupe Tarpea del mass market sopravvive solo l’eletto, il best-seller, che vive una stagione intera, forse due, secondo curve di assorbimento precise e studiate. Si parla di una cinquantina di titoli su circa 55.000 prodotti, lo 0,10 % del totale prodotto.
A ciascuno di questi libri ho dovuto, per legge, attribuire un prezzo di copertina.
Compito arduo, non sapendo quante copie ne venderò, se farà flop o se sarà un best-seller! Ma, cosa ancor più inquietante, su questo improbabile pricing giocheranno, per sottrazione, tutti i costi distributivi del libro incluso quel risicato 30% del povero libraio.
Nel caso del libro, bisognerebbe infatti parlare di una IVS, non di IVA, un’Imposta sul Valore Sottratto, non sul valore aggiunto. Tanto è vero che la legge prevede, per il libro, una resa fisiologica che viene per così dire “scontata in partenza”: ecco la ragione dell’IVA ridotta al 4%! Non la “nobiltà” della merce, non un privilegio della “cultura”, ma un semplice calcolo meccanico di come funziona il via vai del libro fra i magazzini dell’editore e gli scaffali delle librerie, regolato da quella legge non scritta chiamata “diritto di resa”, unica protezione del libraio, ma anche vero responsabile della bulimia produttiva che caratterizza un mercato per sua natura affetto da nanismo: solo un migliaio di punti vendita concentrati nelle mani di cinque grandi gruppi.
Che sia un sistema assurdo dal punto di vista economico lo capirebbe anche un ragazzo di seconda ragioneria, ma sembra che il mondo della politica fatichi a capirlo.
Mentre è ovvio che facciano finta di non capirlo i colleghi di stazza, che si devono difendere dal rischio di improvvise rese miliardarie, se il “sistema” si incrinasse troppo rapidamente, a favore della circuitazione digitale…
La realtà innescata dall’avvento del digitale assomiglia, infatti, più a una metamorfosi che a una semplice rivoluzione tecnologica.
E si tratta di una lenta metamorfosi, come attesta la mia vicenda personale, che mi permetto di raccontare. In tempi non sospetti, nel lontano 1998, avevo preparato per conto del Consiglio d’Europa e per la Provincia di Ravenna alcune linee guida sull’uso potenziale del Print on Demand in Biblioteca. L’anno successivo avevo partecipato a Colonia, unico editore fra 53 bibliotecari europei, al Convegno “Literatur und Sprache”, dedicato alle metodologie di selezione e acquisizione dei libri in lingua straniera destinati alle minoranze etniche presenti in vari paesi. In quella sede, apparve evidente che acquisire files digitali invece delle copie cartacee era una procedura ovvia, ma rivoluzionaria…
Nel 2000 avrei poi scritto per un Convegno a Lubjana la comunicazione “Ma non è fantascienza”, in cui cercavo di guardare al nuovo modo di progettare, costruire e distribuire libri da tutti gli angoli di visuale, incluso quello del bibliotecario! Invocavo allora la nascita di figure ibride, come quella del bibliotecario-editore, capace di riportare in luce (etimo di editor in latino) i capolavori del passato conservati nei propri fondi antichi e di un bibliotecario-libraio, capace di vendere alla propria utenza i libri appena consultati, magari stampandoli “on demand” o fornendo solo i files digitali.
Erano ancora i tempi dell’innocenza e dell’ingenuità, si rincorreva un sogno che aveva in sé elementi masochistici. Non si teneva in alcun conto la necessità di individuare con chiarezza dei modelli di business alternativi a quelli consolidati del commercio cartaceo.
Non ci si domandava cioè come gli editori avrebbero “protetto” il loro piccolo-grande patrimonio immateriale dai rischi della pirateria; si farfugliava qualche bislacca teoria sui ritorni economici della gratuità, visto che Internet si stava configurando come il Porto franco per definizione. E se qualcuno avesse osato preconizzare l’obbligo del pagamento del prestito bibliotecario (imposto dalla Comunità Europea a tutti gli Stati membri), sarebbe stato spernacchiato.
Si vedevano però nettamente i vantaggi del formato rivoluzionario per eccellenza, il PDF! Libri in arabo o in cinese, in urdu o in albanese, perfettamente impaginati e distribuibili ai bambini immigrati nelle scuole…
(8) Ci sono voluti ben undici anni di gestazione per partorire la prima piattaforma di prestito bibliotecario in streaming! E siamo appena agli inizi. Il piccolo Corso di laurea in cui ho l’onore di insegnare, a Urbino, che si chiamava “Editoria, Media e Giornalismo”, è diventato nell’ultimo anno un biennio magistrale interfacoltà intitolato EDITIS (Editoria, Informazione e Sistemi documentari), proprio per includere nel curriculum di studi le problematiche di archiviazione digitale ereditate dai vecchi corsi di Biblioteconomia.
Insomma, un lungo cammino ci attende.

b) Immaginare le alternative al modello distributivo convenzionale

Ecco dunque la mia “visione” di dieci anni fa: io pubblico dapprima solo il file digitale del mio libro e lo sottopongo, da una piattaforma che potrebbe essere gestita direttamente dall’Agenzia per l’ISBN, al mercato delle librerie e alle biblioteche.
Queste lo compulsano, lo sfogliano, lo valutano e decidono, se del caso, di comprarlo: chi in veste digitale (e-book), chi in versione cartacea (Print-on-demand).
Compatti, da subito, i librai hanno osteggiato e ridicolizzato il modello POD, che metteva in crisi la loro stessa esistenza, soprattutto dopo il fenomeno mega concentrativo che ha visto il mercato della libreria concentrarsi nelle mani di non più di 5 grandi catene distributive.
Compatti, da subito gli editori hanno osteggiato l’ipotesi di una distribuzione di contenuti immateriali. Hanno fatto guerra a Google e al suo “Ricerca” nei libri. Ma c’era poco da fidarsi anche dei cosiddetti DRM (letteralmente Digital Right Management, in realtà Digital Restriction Management!), troppo facili da craccare da parte dei nativi; le prime esperienze di e-book Reader dedicati, con formato proprietario (come il Lit), gestiti da singoli editori (Mondadori) erano stati dei flop clamorosi.
Compatti, i bibliotecari hanno cominciato ad agitarsi quando si è cominciato a parlare di pagamento del prestito e l’Italia è stata messa in mora dalla Comunità europea per non aver ancora ottemperato al disposto comunitario.
Poi, improvvisamente, repetita juvant, un anno fa è scoppiato il Kindle, analogo modello di “macchinetta” proprietaria, ma con alle spalle una Libreria Planetaria delle dimensioni di Amazon, non un singolo editore!, con molte centinaia di migliaia di titoli potenzialmente disponibili presso tutti gli editori! E il mondo editoriale ha cominciato a tremare di fronte ai numeri che Amazon forniva.
Kindle ha dato la prima vera mazzata allo sbarramento ideologico degli editori tradizionali. Con Kindle sono ovviamente tornate a brulicare svariate decine di altre macchinette più o meno appetitose, tutte accomunate dalla affascinante chimera della cosiddetta “carta elettronica”: dall’i-Rex al Nook, dal primogenito Sony al Samsung. E tutti sono in attesa ansiosa della seconda generazione di e-Reader, quella a colori.

c) Capire il lavoro creativo dell’editore

Molti di voi ricorderanno quando questa parolina andava di moda: specifico.
Si parlava di specifico filmico, così come si parlava di “sistema”…Parole archiviate dalla modernità. Oggi questo concetto di specificità ritorna utile, proprio perché lo sviluppo delle nuove tecnologie e di Internet ha messo in seria discussione lo stesso significato del lavoro editoriale.
Basta vedere lo sviluppo che hanno avuto negli ultimi anni le società che offrono servizi di “self publishing”: da Lulu a Ilmiolibro.it, per non citare che quelle più note (ma sono centinaia! negli Usa sono addirittura colossi come Book Surge, non a caso acquistata da Amazon…).
Ora, provate a immaginarvi, voi bibliotecari, una realtà fatta di libri autoprodotti e ponetevi il problema di come e che cosa acquisire per la vostra utenza. “Scopri i best seller di domani”! lo squillo della vetrina di Ilmiolibro.it ti invita a visionare gli 8.000 titoli in vetrina: Lottare significa esistere. Rassegnarsi è come morire era il primo della lista, che credo scoraggerebbe anche il più temerario di voi. Moltiplicate questo esercizio per circa un migliaio di siti nel mondo e avrete il classico “incubo del bibliotecario”, l’opposto della “sindrome di Stendhal… Qui si sviene per la bruttezza del panorama editoriale che si ha davanti.
Ma torniamo a caccia dello specifico editoriale.
A differenza degli automatismi impaginativi dei siti di self-publishing, in una vera casa editrice dovremmo trovare un redattore. Il condizionale ovviamente è d’obbligo perché anche questa antica figura professionale è sotto metamorfosi. Se non lui, qualcuno che gli assomigli, magari esterno, magari free-lance: questo simil-redattore, metà redattore, metà impaginatore, utilizzando un software dedicato, produrrà un “sorgente”.
E qui si incominciano a vedere i primi effetti della metamorfosi in atto.
Fino a poco tempo fa, anzi tuttora, quando il destino del libro era prevalentemente cartaceo, il software utilizzato era un programma di impaginazione (ormai vincente In-Design rispetto al vecchio Quark X-press), che dava al libro l’aspetto, il formato, le caratteristiche estetiche volute dall’editore.
Era il formato che metteva il lucchetto a una certa impaginazione, consentendone la stampa senza rischi di spaginazioni, anche da remoto, una specie di fotografia della pagina; era, ed è, il famoso PDF di Adobe. Formato davvero geniale, che adottato in quanto tale, ben al di là della sua funzione originaria finalizzata alla stampa, si configura come il primo vero “e-Book” di questa fase evolutiva della nostra storia.
Un PDF è un perfetto e-libro, un libro digitale, perfetto per essere visto o scaricato su un computer, indifferentemente Mac o PC. Perfetto…?
Da sempre più parti si comincia a invocare un vero e-book, non un banale PDF.
Adobe raccoglie la sfida e sfodera una Suite 4 con funzionalità fantascientifiche per il formato PDF: ingloba filmati, musiche, fa il triplo salto mortale pur di non rinunciare al primato…
Per quanto evoluto, il PDF non riesce a scrollarsi di dosso la sua vocazione originaria di formato per la stampa: i colossi americani invocano uno standard univoco e condiviso e lanciano l’e-pub. I gestori di telefonia mobile avanzano le loro pretese legittime di device di destinazione anche per i contenuti testuali: invocano l’XML. Poi, ricorderete, arriva Kindle, la vetrina-remota di Amazon (questa la sua definizione più pertinente); Kindle (a differenza di Sony, solo per fare un esempio) ha una interfaccia che “traduce” il formato PDF nel proprio formato proprietario, non lo visualizza in quanto tale. Una specie di interpretariato simultaneo dal russo all’inglese. Per questo è nato. Altri, vedremo, rincorrono l’utopia dell’esperanto.
Sembra il trionfo della rincorsa tecnologica: la tecnologia rincorre e imita il più antico fra gli hardware, la carta. I nuovi device sono carta e inchiostro elettronici, non computer, non schermi retroilluminati. Carta, con tutte le fantasie che questa si porta dietro: un foglio magico e prossimamente flessibile, su cui possono apparire – e scorrere – centinaia di migliaia di pagine di testo e d’immagini…
Nel frattempo si affacciano sul mercato le prime piattaforme distributive di contenuti digitali: la loro funzione è non solo quella di “tradurre” i contenuti ospitati in qualsivoglia formato richiesto dal device richiedente, ma di trasformare i vecchi contenuti statici in contenuti dinamici. E poiché Mc Luhan l’aveva vista lunga e il mezzo è davvero il messaggio, se ne vedranno letteralmente di tutti i colori nel modo di fruire i futuri contenuti. Esperienze letteralmente psichedeliche. Si studieranno le costole teoriche del celeberrimo Scientific Advertising di Hopkins, come oggi si studiano gli scheletri dei dinosauri.
E i costi distributivi delle nuove piattaforme dinamiche sono proporzionati alle dimensioni potenziali del mercato planetario di riferimento per la pubblicità del futuro.

d) Comprendere che c’è un ruolo per il sistema bibliotecario in questa guerra di giganti dai piedi d’argilla.

Solo un paio di mesi fa, l’ennesimo coup de théâtre: Steve Jobs lancia l’i-Pad (e fa il bis di i-Phone, che nel frattempo si era spontaneamente candidato come device fisiologico per lo scarico di e-books …). Siamo in presenza del preconizzato ibrido telefono-computer, che ora intende fregiarsi anche del titolo di e-Reader d’eccellenza.
Vi rendete ben conto che siamo nella cronaca fino al collo, non nella storia di un’evoluzione tecnologica. Questa la scriveremo fra qualche anno, quando le battaglie fra colossi dell’IT avranno individuato con sufficiente chiarezza chi avrà vinto la guerra del controllo planetario del mercato dei contenuti.
Per ora, la sensazione più appariscente è che l’hardware si sia preso una bella rivincita rispetto al software che fece la fortuna di Microsoft: oggi sono i nuovi giocattoli tecnologici a tenere banco sui media e persino alla televisione. L’immagine di Steve Job, che presentava al mondo il suo ultimo nato tenuto in braccio come un pargolo, aveva la valenza dei segni epocali. Qualche anno prima era la giocosa variabilità occasionale del marchio Google a fare notizia in un mondo che pretendeva che il marchio, quello che i testi di ragioneria chiamano ancora “la ditta”, fosse immutabile nei secoli.
Eppure, dovrebbe essere chiaro a chiunque che la battaglia decisiva si farà sui contenuti, non sui devices di destinazione. Queste moderne macchinette sono deputate semplicemente a “leggerli”, i contenuti, in maniera più o meno brillante, agile ed economica, fra una email, un tweet, un invito di amicizia, o magari un videogioco iperrealista di tipo storico.
Comunicare sarà davvero “una questione di contenuti” come scrivevo sette anni fa nell’headline del nostro sito web (che mostra ormai tutti gli anni che ha…).
Ma prima di continuare, e concludere, voglio qui rendere omaggio a un vero precursore quanto a coscienza della centralità dei contenuti: quel Rodrigo Vergara che già alla fine del secolo scorso si inventò Worthèque – bellissimo nome poi perso per strada –, una grande biblioteca multilingua i cui 44.732 titoli disponibili possono ancora oggi essere letti, pagina dopo pagina (una specie di streaming ante litteram), nel più universale e rivoluzionario dei i formati, quel.txt su cui la Logos di Vergara ha investito tutto il suo immenso patrimonio di “parole”.(9)
La storia dei “precursori”, sul fronte dei contenuti patrimonio dell’umanità (tema che dovrebbe stare molto a cuore dei bibliotecari), brulica in realtà di esempi: basti pensare che Project Gutenberg nasce nel 1971 per iniziativa dell’americano Michael Hart “con l'obiettivo di costituire una biblioteca di versioni elettroniche liberamente riproducibili di libri stampati, oggi chiamati eBook”, come recita Wikipedia.
La maggior parte dei 22.000 testi rilasciati dal Progetto Gutenberg sono in lingua inglese, ma sottocollezioni significative riguardano il tedesco, il francese, l'italiano, lo spagnolo, l'olandese, il finlandese e il cinese: ma sono appena la metà di quelli messi online da Logos che pubblica in 112 lingue!
Certo, sciocchezze rispetto ai 3 milioni e mezzo di libri resi disponibili alla ricerca totale o parziale da Google, ma sempre di cifre rilevanti si tratta. Come si vede, sono le biblioteche – perché Google, non dimenticatelo, è una megabiblioteca – sono le biblioteche a fare i numeri maggiori.

e) Essere come Google, più grandi di Google

E’ proprio così: i numeri delle biblioteche non hanno concorrenti quanto a definizione della “domanda” di contenuti da parte di una utenza “colta”. Detto più volgarmente: non c’è strumento di marketing che valga quanto il dato statistico delle richieste di contenuti rivolte dall’utenza a un qualsiasi sistema bibliotecario. Cito sempre in proposito il dato eclatante delle visite al mio catalogo da parte dell’utenza Google: non avrei mai potuto immaginare che il mio best-renter, il mio libro più consultato fosse il Moby Dick di Melville! Eppure è un dato costante da oltre 5 anni.
Confesso di avere un debole per Google Books. Trovo che solo due veri geni potevano arricchirsi pensando di rimpiazzare i bibliotecari di mezzo mondo. E non ho mai nascosto di ritenere che la Salvezza (dell’Editoria) verrà dalla Biblioteca, unica “istituzione” di dimensione planetaria, ben più diffusa di Google, in Cina come a Busto Arsizio. Altro che catene Coop!
Davvero il sistema bibliotecario mondiale, nelle sue mille sfaccettature e caratterizzazioni, può essere paragonato al sistema di circolazione sanguigna nel corpo umano: qui pulsa e circola il sangue della cultura.
Intendiamoci: non ho nessun pregiudizio nei confronti dei circuiti commerciali. Mi limito ad osservare che essi bastano a loro stessi. Il criterio di selezione di un best-seller attiene alle regole del mercato. Il libro-merce, mi sta benissimo. Basta trattarlo per quello che è: una merce. Ma il libro a contenuto culturale e scientifico è un’altra cosa. Confondere i due libri, indipendentemente dal fatto che siano fatti entrambi di carta o siano entrambi in veste e-book, sarebbe un errore clamoroso.
Io credo che il mondo bibliotecario, forte dei suoi numeri, debba fare sentire chiaramente la propria voce nell’agone attuale. Il mondo delle Biblioteche deve dire con chiarezza che cosa chiede al mondo dei produttori di contenuti.
Tutti coloro che concepiscono e trattano, come proprio “specifico” dei contenuti editoriali - possedendone il Copyright o qualunque cosa gli assomigli nell’era della massima riproducibilità tecnologica - con esclusione cioè dei fornitori di servizi di self-publishing a pagamento, che per l’appunto non posseggono alcun diritto sui titoli che pubblicano in maniera mercenaria, dovrebbero essere trattati dal mondo bibliotecario come propri interlocutori privilegiati ed elettivi.
E la richiesta dei Bibliotecari agli Editori dovrebbe partire proprio da quei piccoli accorgimenti cui accennavo all’inizio e che colpevolmente non sono mai diventati richieste o rivendicazioni nei confronti della corporazione editoriale.
Mi guarderò bene dal fare alcuna ipotesi o esemplificazione operativa; ma non posso non rilevare che editore e bibliotecario sono posti alla pari di fronte alle stesse esigenze di metadatare i propri contenuti digitali secondo criteri semplificati e validati da uno standard comune. Mi domando, nello specifico, che cosa impedisce che questo obbiettivo possa essere al centro di un tavolo tecnico fra editori e bibliotecari. Mi domando che cosa impedisce che un territorio – una città, una provincia, una regione, una nazione – riconosca l’interesse “comune” a garantire la circolazione digitale di contenuti culturalmente e scientificamente rilevanti, proteggendo al tempo stesso il legittimo diritto dell’autore e dell’editore ad una equa remunerazione del proprio lavoro.
Così come ogni libro nasce col proprio ISBN, del pari l’editore digitale dovrebbe imparare a dotare il suo e-book di tutti gli standard suggeriti dal sistema bibliotecario per garantire il suo utilizzo remunerato e la sua fisiologica circuitazione su scala planetaria.
E mi domando, infine, se non sia pensabile che i sistemi bibliotecari nel loro complesso possano divenire fisiologicamente anche il circuito privilegiato di vendita di quello stesso contenuto digitale, che viene dapprima offerto in prestito alla totalità della cittadinanza che opera in quel territorio. Nell’attuale “babele” di interessi, più che di formati o di standard, l’esigenza culturale e scientifica del fruitore del servizio bibliotecario dovrebbe diventare la bussola di riferimento per tutti i protagonisti in campo.

5. Conclusioni

Mi avvio a una conclusione che è in realtà non può che essere la riproposizione della domanda inizialmente posta: è ragionevole ipotizzare una alleanza sui contenuti fra mondo bibliotecario e mondo editoriale? La risposta non può che essere: sì, è ragionevole. Anzi obbligatorio. E ancora: è ragionevole che le forze politiche, responsabili del governo di un territorio, si pongano in maniera attiva rispetto a questa esigenza di “ricchezza” di contenuti scientifici e culturali espressa dall’evoluzione tecnologica? Sì, è ragionevole, anzi obbligatorio.
E infine: è ragionevole attrezzarsi per fronteggiare la sfida inizialmente lanciata da Letizia Moratti, e raccolta dal ministro della pubblica istruzione, Maristella Gelmini, quanto a contenuti educativi in formato digitale per il mondo della Scuola? Qui non dirò neppure che è ragionevole, dirò che è scandaloso che quasi tutti gli anelli della catena di valore della formazione scolastica si siano tenuti così colpevolmente “coperti” da ogni rischio di fronte ad un mondo che esige un cambiamento radicale di stile educativo, non solo di didattica.
Non è mio compito indicare con quali strumenti “politici” o con quali investimenti si potranno perseguire gli obbiettivi indicati: credo però che sia necessario e urgente aprire un “Laboratorio”, forse addirittura una “Costituente”, in cui vagliare e adottare le soluzioni più adeguate; e creare occasioni di confronto fra gli operatori coinvolti in questo entusiasmante processo di metamorfosi epocale: bibliotecari, editori, distributori, librai, produttori di hardware, insegnanti e ricercatori.

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(1) Questo contributo costituisce la sintesi di due interventi presentati al convegno “Cultura senza barriere”, organizzato dall’Università di Padova (Padova, 19 febbraio 2010) e al convegno “Conservare il digitale: gestione e salvaguardia, verso nuove frontiere di servizi”, organizzato dalla Regione Lombardia. Culture, identità e autonomie della Lombardia (Milano, 27 aprile 2010).

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